In foto, io, quest'autunno in Romania.
Sono nato in Italia, però, mia madre e mio padre no.
Così comincia la storia di molti, forse troppi per qualcuno, ma non è di odio che voglio parlare. Non tutti hanno la fortuna che ho avuto io nell’avere perfino tre differenti culture nella vita. Che bella parola che è “cultura”, suona così piena e forte. Esattamente come ciò che rappresenta, il popolo e la sua essenza. La cultura ci permette di non dimenticare da dove proveniamo e ciò che i nostri antenati hanno vissuto e tramandato. C’è però un’altra cosa forse ancora più importante per un popolo, la lingua. Permette ad ogni individuo che ne conosce la grammatica di comunicare, ed ecco un’altra bella parola, “comunicare”.
Dopo aver studiato nella terra di mia madre, in Slovacchia, sono tornato nella mia città natale per crescere da italiano; ad aspettarmi mio padre, nordafricano. Per molto tempo prima di quel momento facevo avanti e indietro tra paesi e culture completamente differenti, spesso opposte; avevo sette anni e conoscevo quattro lingue. La verità è che non ne parlavo bene nessuna, spesso ho dovuto cambiare lingua tra i miei genitori e tradurre tra parenti; ero il loro traduttore ufficiale. Quando cominciai la scuola l’italiano lo parlavo come “uno dell’est”, sbagliavo le doppie e gli accenti e spesso venivo preso di mira, chiaramente. Per anni ho dovuto sopportare ogni sorta di storpiamento del mio nome, fino ai classici insulti, spesso anche banali. La cosa però interessante è che niente di più. Solo parole, che solo ora, in questo testo, hanno forma, ma che volerebbero via come polvere se non fossi diventato uno scrittore. Nel tempo avevo scoperto che più mi avvicinavo a come parlavano le persone, più nemmeno si rendevano conto delle mie origini. Non parlo delle persone a cui non importa delle origini altrui, chiaramente. Per tutta la mia adolescenza ho studiato l’italiano come meglio potevo e cominciai anche a scrivere. Il mio linguaggio migliorava, la dialettica e la fonetica era sempre più “fedele” e mi sentivo meglio. Avevo più sicurezza, sapevo che potevo affrontare chiunque a parole, senza usare offese, solo dialogo. Il “razzista” lo è fin quando ha potere di parola sullo straniero, che spesso non conosce bene la lingua del paese in cui è arrivato. Questo fa sì che chi odia possa assumere un vantaggio, dal punto di vista comunicativo, e che facilmente venga ascoltato da chi gli sta intorno. Chi non ha voce e non ha parola è costretto a comunicare con il corpo e sono quasi sicuro che in ogni cultura ci sia radicata anche una movenza del corpo tipica, probabilmente evoluta in base alle condizioni e lo stile di vita del luogo. Questo fa sì che la comunicazione non verbale sia differente per ogni popolo e cultura. Non parlo di fare a pugni diversamente, ma esprimersi con un certo atteggiamento fisico differente. Se il razzista traduce queste “movenze” in “pericolo”, e non le capisce, allora in quel caso si crea la necessità di “scacciare”. Metterei anche più virgolette, ma esteticamente non sarebbe bello questo testo; una mia fissa.
Non voglio dire che è solo questo che crea odio verso il negro, il giallo, il mangia cous cous e altre discriminazioni varie. È però una parte fondamentale a cui quasi nessuno dà importanza. Voglio dire che l’arma migliore per combattere l’odio e la discriminazione è lo studio della lingua e la cultura del paese in cui si intende vivere, o quello di una lingua internazionale come l’inglese. Se si è capaci di spiegarsi, di comunicare, di comprendere l’interlocutore, si dimostra la volontà di integrarsi. Sono consapevole che in alcune realtà la parola non basta, ma in molte sì. Finché c’è fiato tentar non nuoce. La mia esperienza mi ha insegnato che la cultura e il linguaggio sono fondamentali per integrarsi, per farsi ascoltare e capire.
Ho scelto che il mio compito e lavoro sarà quello di comunicare attraverso l’arte in tutte le sue forme, dalla parola agli occhi, l’ho scelto dalla prima volta che mi sono espresso. Sono partito per conoscere e apprendere dalle persone che sono al di fuori dai miei “confini” e ho scoperto che ci sono differenze di pensiero, di comportamento, di attitudine. Voglio essere un uomo di mondo e far parte di ogni posto, senza una categoria culturale unica ed etichettata come il cibo importato al supermarket, nel reparto “cibi stranieri”.
- Anasse Nabil
P.S. Un tempo ero un poeta, qui c'è il mio libro.